mercoledì 20 febbraio 2008

Riccardo bottazzi - "Pont au change sans pont"

PONT AU CHANGE SANS PONT.

Lo scultore porta irrimediabilmente con sé lo sforzo del gesto perpetrato sulla pietra. Sforzo che solo a lui è dato riconoscere pienamente, di cui solo lui conserva i calli sulle mani. E più quel che ne consegue è frutto della fatica e dell’abnegazione, più l’opera parrà in chi la guarda di voluminosa leggerezza, di sconvolgente verità. Al pari di un qualsiasi fenomeno naturale. Quanto segue è il resoconto, misto di cronaca e suggestioni personali, di una conversazione avuta con Riccardo Bottazzi sul ciclo di tele qui esposte, in occasione di un recente viaggio comune.

Il cielo talvolta si mangia le nuvole, poi sputa gli ossi rilasciandoli nell’aria in altra forma. Filamenti elettrici si appostano ora come sentinelle sopra le nostre teste in attesa di abbattervisi contro. E’ la fame della natura. La sua spinta materna, la sua digestione. Rispettivamente il tempo e lo spazio osceno di qualcosa sul punto di accadere, sicuri che prima o poi avverrà. Ma il dove, il come ed il quando esatti, tenuti all’oscuro fino all’ultimo istante. Cosa può dunque l’uomo di fronte a ciò, al cospetto di tale ineluttabile vaghezza eppure certo accadimento, se non ingegnarsi in una qualche ardita previsione degli eventi, nell’azzardo del futuro ritenuto a suo dire più verosimile, nell’ingenua prospettazione di un’ipotesi, e come, se non tracciando linee e unendo punti che diano della materia una qualche foggia nota, una qualche combinazione della vita già visitata dai sensi e dall’esperienza. Predire gli eventi è alle volte un modo conveniente per farseli amici venendoci a patti prima. Così può essere anche per l’arte. Può dirci cosa guardare, dove puntare l’occhio e prendere la mira, indicarci un soggetto/oggetto verso cui dirigere l’attenzione permettendoci un qualche appiglio con il reale, oppure lasciarci in balia di labirinti di forme inaddomesticate grandi quanto l’universo, ma accarezzandoci proprio quando tutto sembra perduto, quando ogni riferimento pare introvabile, quando lo stesso concetto di comprensione sembra un’assurdità senza posa e rimedio. Questo fa talvolta l’arte. Spinge la crudeltà del gesto creativo fino all’ennesima potenza, nelle sue versioni più radicali non fa prigionieri, però ci tiene comunque a coniugare la curiosità di chi guarda l’opera con il prodigio della redenzione di chi quell’opera l’ha appena compiuta.

L’una di notte. Arriviamo a Parigi quando il cielo ha già terminato il suo pasto, è piovuto fino a qualche ora prima, adesso di nuvole nemmeno l’ombra, le uniche sagome possibili sono quelle proiettate dagli altissimi pinnacoli al neon posti ai margini dei boulevardes di periferia, ma in realtà sono solo i riflessi di quelle luci artificiali venute a tatuarsi sull’asfalto al termine della loro ripida discesa a terra. Nei pressi di uno di questi solarium a mezzo servizio ci appostiamo a caccia di un passaggio. La sola luce basterà a scaldarci l’attesa. Preso al volo il taxi che ci condurrà in albergo, la nuca nera del guidatore, una mano appena poggiata sul volante, con l’altra sbuccia per noi la città come una mela gonfia di polpa pronta a farsi mangiare. Infatti non l’attraversa bruscamente, non incide la carne dei quartieri verticalmente verso il centro, gli è vietato dalle direzioni obbligatorie imposte dalla segnaletica. Da Porte Maillot l’auto percorre in senso antiorario gli arrondissement sedici, quindici e quattordici, fino al tredicesimo, termine della corsa fissato sul display del cruscotto in 20 euro, lasciandosi alle spalle una scia ininterrotta di ampie vie e pieghevoli rotatorie. Adesso ci rimangono poche centinaia di metri da percorrere a piedi lungo rue Bobillot. Se Parigi è un posto buono per parlare di cose che contano nel cuore e nella mente di due persone, una volta scesi dall’aereo il viaggio che ci conduce sino a Place d’Italie è già entrare in argomento, è già farsi domande e darsi risposte, scambiandosi spesso di posto.

Non deve quindi sorprendere che alle mie rassicurazioni sull’imminente arrivo in albergo al numero 58, corrisponda da parte di Riccardo il fornirmi l’indirizzo senza civico preso dall’ultima tela realizzata prima di partire. Lui, che di mestiere intacca, sbozza e leviga tutto quanto della materia abbia un peso specifico sopra la media, da un po’ di tempo a questa parte si affida all’ordito leggero della tela per riprodurre un tipo di natura e geografia che non è ai suoi occhi semplice sistema di accadimenti in successione, non vie intersecate chiaramente le une alle altre, ma una specie di aggregazione indistinta, massa compatta, che lascia solo intravedere dove finisce una cosa e ne comincia un’altra ma non ne traccia perfettamente i confini. Infatti se il pittore è in genere portato a selezionare tra diversi oggetti posti al suo sguardo quello di maggiore gradimento, e da qui lavorare alla sua riproducibilità artistica, lo scultore Bottazzi si misura invece con il tutto, e lo fa con religioso puntiglio. Egli intende saggiare la terza dimensione di ogni cosa, ovvero quella profondità del tatto che gli impone di andarle incontro a partire dal proprio corpo. E’ la relazione tra sé ed il mondo, tra il mondo visibile e gli altri mondi non visibili cui l’artista appartiene in egual misura al primo, ciò che gli sta veramente a cuore. E tutto quanto si scatena tra di essi al loro reciproco contatto. Ogni entità, per quanto singolare, viene a fungere come tramite per un’altra ed un’altra ancora, così all’infinito, poiché ciascuna assolve oltre al compito di essere se stessa, anche di fornire l’identità d’accesso per quella successiva. Le numerose spatolate riversate sulla tela avranno allora l’effetto di raccontare una storia sempre nuova della materia, riferiranno di un continuo rinnovamento, di un dormiveglia delle concrezioni di colore mai messe del tutto a tacere, al contrario perennemente rivolte alla rinascita. Al bando ogni dispotismo del soggetto, è alla franca fisicità della sostanza cui viene affidata suprema libertà combinatoria. Ma non crediate si possa per questo parlare di anarchia. Chi come Riccardo penetra nei nascondigli della percezione, sa bene la differenza che passa tra lo sterile caos di superficie e la fertile duttilità dei pensieri di retrovia. Nella sua ricerca pittorica vive piuttosto la coscienza che la materia ci parla dicendoci di continuo: cammina con me. Rammentandoci che ogni passo è l’anticipo necessario per il successivo.

Così facciamo noi nel brevissimo soggiorno parigino, camminiamo per i quadrilateri cittadini fingendo di smarrirci ed avere così la scusa per imboccare un’altra strada, camminiamo sopra e sotto il pelo della senna, raddoppiamo il passo sui lunghi tapis roulant che conducono al metrò, non vogliamo favori, marciamo persino dentro alle carrozze, e se alle volte ci sediamo è per una forma di rispetto verso i seggiolini liberi in avanzo. Pure da seduti lo spettacolo non manca. Spianate di ceramica bianca tappezzano i muri a schiena d’asino dei sotterranei prospicienti la banchina. E’ impossibile non crogiolarsi, seppur brevemente, sugli ampi ghirigori disegnati su quelle pareti. Sono piastrelle che formano nomi, questa volta nere, per un banalissimo gioco dei contrasti. Disposte per file di una, definiscono lo spazio di un momento, quel regno che si chiude fatalmente alla chiusura dei portelloni automatici. Giusto il tempo di leggere Pont au change. Ma non segnato sulla mappa ferroviaria. Così mi pare. Sarà mia la disattenzione. Forse del Pont au change esistente in superficie, io ne ho fatto l’ingenua proiezione lì di sotto. Forse avrei dovuto lasciarmi condurre dalle scale mobili anziché gareggiare con loro. E la stanchezza mi ha giocato un brutto tiro. O più semplicemente, quel che ho letto è un’invenzione del respiro. Un orgoglioso scatto di coscienza. Come le tele di Riccardo, in bilico tra realtà ed immaginazione. Percorribili dallo sguardo in ambedue i sensi, in teoria, in concreto sbirciata degli occhi lanciata lontano, senza più ponti che garantiscano un ritorno.

di domenico settevendemie

venerdì 8 febbraio 2008

CAFFE'!


Serena Simoni

Un’esperienza insolita per Ravenna è visitare mostre d’arte contemporanea in spazi privati che non siano gallerie (in città, a dire il vero, queste si contano sulle dita di una mano). E così, con un ammirevole piglio metropolitano, l'associazione CadeArt organizza da novembre una serie di appuntamenti mensili dal titolo Lex Artis, a cura di Ilaria Siboni, ospitati presso uno studio legale in pieno centro città, in cui vengono esposti i lavori di artisti generalmente sotto i 40. Non c'è che da essere contenti, quindi, di queste occasioni anticipate da vernissages affollati da un pubblico prevalentemente giovane, visitabili senza appuntamento e in orari pomeridiani. L'ultima mostra in ordine di tempo – a cui seguiranno altre tre fra marzo e giugno – presenta i lavori del ravennate Roberto Pagnani, che espone una serie di olii su tela dal titolo Caffè!: si tratta di opere di varie dimensioni sintonizzate su una poetica degli oggetti, che esplicita nel titolo la predilezione per tazzine e caffettiere, che rappresentano i pilastri fondamentali di uno dei maggiori riti del quotidiano. Pagnani presenta questa nuova serie in una raggiunta maturità espressiva, in cui lascia alle spalle le sue precedenti esperienze materiche e sostanzialmente astratte, per superarle in un nuovo stile figurativo abbreviato, potente per segno e pennellata. In effetti la vocazione precedente a favore di una pittura informale viene recuperata nell'amore per la gestualità, negli improvvisi sgocciolamenti, nelle tessiture corpose del colore: il tutto però trasformato e trattenuto dagli elementi figurativi, che si impongono quasi come "ritratti" di oggetti viventi. La presentazione della mostra, orchestrata da Domenico Settevendemie, mira in effetti a esplorare la vita di un mondo apparentemente inanimato, da guardare con lo stesso amorevole sguardo appassionato di Savinio.

"Caffé", personale di Roberto Pagnani, presso Studio legale Donelli-Dal Monte-Vecchi, via C. Ricci 29 Ravenna. Fino al 20 febbraio, orari: da Lu a Ve 15.30-19.

giovedì 7 febbraio 2008

Galleria De' Marchi - Bologna


M.Bendandi e R.Pagnani (Topoi05) alla galleria De' Marchi di Bologna.