lunedì 28 maggio 2007

FESTA MARCHIGIANA...




Ecco come degli amici artisti (musicisti, pittori e scultori) si riducono alle feste organizzate da "matti inglesi" nelle marche!

ALESSANDRO GALLO E ROBERTO PAGNANI


Il 22 maggio si è festeggiato, a Bologna, il primo anno del salotto letterario di Patrizia Finucci Gallo.

sabato 26 maggio 2007

DOMUS CON VISTA

Comune di Lugo Assessorato alla Cultura

Fuori di sé

II Rassegna di Arte Contemporanea

a cura di Stefania Vecchi

Casa Rossini

via G. Rocca, 14 Lugo (Ra)

inaugurazione

venerdì 1 giugno 2007 - ore 18,30

DOMUS CON VISTA

testo critico di Maria Chiara Zarabini

Marco Campanini Simona Gavioli Leonardo Greco

Pietro Iori Roberto Pagnani Giancarlo Scagnolari Federico Zanzi

1 giugno – 17 giugno

orari di apertura: da martedì a sabato 16,00/18,30

domenica 10,00/12,00 – 16,00/18,30

chiuso il lunedì

“Solo al cittadino puro, del tutto isolato dalla

campagna circostante, e che non possiede più un

sapere immediato e ingenuo dei processi naturali,

soltanto all’uomo civilizzato e sofisticato, dalle ca-

pacità di osservazione atrofizzate, la natura, appare

come l’altro, opposto e desiderabile, a cui egli si

abbandona con sentimento o con nostalgia. Solo

questo io, non vivendo più nella natura, si trova di

fronte alla natura, solo questo io si trova costretto,

per uscire dalla separazione e dalla perdita di un

accesso immediato alla natura, ad inventare un

nuovo modello, ed egli soltanto proietterà, per

mezzo di una decisa negazione, desideri e significati

sulla natura di cui fervidamente va in cerca”.

Michael Jakob, Paesaggio e letteratura, 2005

DOMUS CON VISTA

L’occhio mentale che indaga il reale e lo visualizza in proiezioni visionarie, eteree, umanizzate o misteriche, nel discorso pittorico di Stefania Vecchi come nello scultoreo della sottoscritta rappresenta ciò che ci ha spinto a interloquire con gli artisti di questa rassegna e a concretizzare l’idea che il tema del paesaggio come luogo del transitare potesse essere il catalizzatore di questa esposizione “ in casa “.

Il titolo poi, non a caso, ribadisce una dimensione domestica: un invito, fra la quiete dei muri, ad abbandonarsi ad una visione pausata e lontana dalle molteplici insidie della mondanità. Nel sonoro silenzio delle pareti, intonacate solo dal glaciale color bianco della contemporaneità, gli artisti appaiono alla ricerca di una dimensione perduta dove forte emerge un respiro nostalgico teso al riappropriarsi di un territorio smarrito.

Nella diversità degli approcci tecnici, mi è così parso di cogliere una pulsione “neoromantica” , a volte, un blando impulso alla mimesis: il procedere da un dato noto per poi deviare sentimentalmente, anche attraverso mezzi meccanici come la fotografia o il video ma anche con la matericità di una pittura neoinformale o di una scultura fra l’object trouvè e un certo poverismo simbolico, mi è sembrato evidente. E tale deviare è proprio ciò che ha permesso di vestire questo luogo che da spazio cartesiano si è trasformato in una domus con vista, virtualmente schiusa a percepire l’incanto di una natura esteriore, interiore o altra, mai solo quotidiana.

La domus, però, sia ben chiaro, non vive nella dimensione del virtuosismo illusionistico classico, che fa pur sempre parte di una sorta di proiezione del sentimento idilliaco nei confronti della natura, ma può diventare una specie di camera ottica. Una camera ottica, questa volta abitabile, dai molteplici obiettivi ai quali corrispondono tante “vedute” individuali e quindi tanti occhi “vedenti – veggenti“ che simpateticamente e specularmente, riversano all’interno del luogo una loro proiezione del sentire.

Tale metafora secondo me è utile per sottolineare il diffuso atteggiamento di mediazione del dato naturale e l’approccio sempre concettuale che ne consegue: una mediazione che forse è proprio il sintomo di un timore, di una esitazione ed allo stesso tempo di una fascinazione fabulistica, mitica ed esistenziale. La domus così si propone, nella scelta delle opere, come la proiezione di noi stessi, un rifugio privato, un luogo di ricerca dei sempre più labili nessi che ci connettono al mondo: e tutto ciò si può attuare, ne sono convinta, anche e soprattutto con l’arte attraverso la ricerca di quelle affinità elettive che legano il solitario artista e la sua opera agli ipotetici interlocutori.

La domus diventa il centro di raccolta di tali pulsioni, non più un banale contenitore di esteriorità ma il luogo dello svelamento di una parte della nostra personalità che ha preso coscienza di sé attraverso l’agire dell’artista.

L’artista è quindi una sorta di sacerdote, di demiurgo che ci accompagna nella crescita spirituale attraverso la consapevolezza della nostra imprescindibile materialità.

Di tale materialità fra l’essere rugginoso e urticante e il virtuale fotografico è intrisa per esempio l’opera di Simona Gavioli: l’immagine del relitto con le sue vesti arrugginite sono la metafora del naufragio dell’umanità ormai mutante. La nave arenata, come una grande balena squarciata dalla furia del mare, sembra mostrare il volto stupito e come attonito, gli occhi piccoli e ravvicinati, il naso lungo e la bocca socchiusa in una smorfia di disappunto frammisto a lieve dolore. Il lungo naso è come scorticato, la pelle mostra l’abrasione della carne viva e la fronte è coperta da capelli grondanti ruggine. La fotografia di Simona incarna così il potere trasfigurante della visione, custodisce la premonizione sibillina e tutta femminea di quella catastrofe imminente che ci ostiniamo a voler ignorare.

In Roberto Pagnani, partecipe di questo discorso profondamente mitico, domina, come in Gavioli, il , muto ai più, silenzio di ciò che resta. Dall’orizzonte “delle terre piatte” si erge quasi come coordinata cartesiana, una palafitta – cavalletto, struttura effimera sospesa nel vuoto dei bianchi padani. A volte l’assialità materica di un legno (quasi un Merzbau dolente) appare come una linea dell’orizzonte interiore, la linea del confine tattile fra acqua e cielo o una linea di confine, fra emisferi cerebrali, che rivela un aldilà nella percezione terrena. Lo sguardo affonda, affoga nei bianchi, nei grigi, negli azzurri di una memoria invisibile oltre che ineludibile, ma quasi preistorica e propiziatoria nella sua sedimentazione materica. Le coordinate di Pagnani evocano la ricerca di un equilibrio universale, la ricerca di un “Io “ antropologico e storico fra terra acqua e aria, le “diagonali “ di Gavioli sono il moto, il divenire e l’accettazione di una ciclicità quasi mestruale che si annulla per ricrearsi.

Le fotografie di Marco Campanini svelano invece l’occhio più distaccato ma sempre amorevole e curioso del collezionista di immagini che nell’intimità domestica si rifugia e fantastica. Così l’obiettivo fotografico sostituisce la lente di ingrandimento nel tentativo di decifrare particolari inafferrabili all’occhio nudo; ma è anche scatola ottica nei suoi giochi di ribaltamento delle virtualità fra il vero dipinto il suo riflesso e la sua riproducibilità.

A volte Campanini incornicia ciò che è nato per essere amato ed anelato da vicino, nell’orizzontalità cartacea o tutt’al più nella diagonalità del leggio: dilata ed ingrandisce la visione, tanto che la macchina fotografica sembra solcare i tratti incisi dal bulino, le singole pennellate o il craquelé alla ricerca tutta itinerante di uno svelamento del piacere della percezione.

I paesaggi fotografici di Pietro Iori sono sfocati e come visti attraverso un vetro appannato, impalpabile riminiscenza dello sfumato leonardesco. La nuvola, che romanticamente è sempre stata considerata uno specchio dell’anima, si fa materia specchiante in una sorta di collage improbabile sulla cui superficie si riflette lo spazio reale; ma la nuvola come “barba” ribelle generata dalla ferace pressione del bulino, vive pure della sua ombra colorata in una proiezione la cui virtualità gioca con la virtualità della fotografia nei frammenti di un nostro paesaggio rurale e padano. Il gioco dell’ en plain air attuato da Iori è come concettualizzato e reso esasperato nel suo giro vizioso di rimandi che suggeriscono, o meglio sostituiscono alla pacata serenità e unità stilistica romantica, una ricerca labirintica del paesaggio e la necessità viscerale di inciderlo, ferirlo simbolicamente al fine di restituirlo nella consapevolezza tutta contemporanea ma profondamente emiliano-romagnola della sua centuriazione costitutiva la quale continua a dialogare con la diagonalità ferrea e feroce ma rivelatrice della nostra contemporaneità.

Anche nella iterazione dei frames pittorici di Leonardo Greco si intuisce la ricerca di un paesaggio smarrito: nei suoi dipinti attraversa con lo sguardo il paesaggio e lo sigilla, lo blocca, lo stigmatizza e lo fa proprio; lo utilizza, iterandolo, come un suggello che attesta la propria presenza – assenza, il proprio possesso di un luogo. Per lui ripetere il brano di paesaggio è come usare un proprio timbro che attesta il possesso di qualcosa che non può essere dissacrato: il paesaggio della propria infanzia. Tale luogo della memoria, è ciò che Greco cerca di bloccare anche nel video, dove immagini ferme ed esili, realizzate con l’ausilio di una ludica lavagna magnetica, generano un racconto statico, dove spazio e tempo sono appunto quelli perduti di un’altra età.

Nell’opera di Giancarlo Scagnolari, il peplo cerato, come vela afflosciata su di un flessibile ed improbabile boma, attende silente quel flebile soffio che la trasporti assieme alla sua camera – barca nella dimensione misterica della nostra paganità smarrita, in quel luogo del transire che ci riconnetta con l’impalpabile e l’incognito. In questo “trapasso” l’abito è talmente impregnato di sacralità che solo così può transitare impermeabile alla mondaneità. La cera è sacra, come sacra è la reliquia e così sacra, e non profanabile se non dalle elette, è la soglia che, ora, solo l’olfatto intuisce. Il sito “addomesticato”, come skenè temporanea, nella sua ermeticità rimarca ulteriormente il misterico distacco, l’appartenere ad un altro paesaggio esperibile forse solo con quei sensi di cui abbiamo smarrito la memoria.

Federico Zanzi nella sua recente ricerca pittorica, dilata invece il proprio sguardo e il proprio essere sul paesaggio fino a farlo coincidere in una sorta di sovrapposizione di terre, al territorio del proprio inconscio. Il volto imbrattato da molteplici colori non più naturalistici ma dell’anima, diventa il territorio su cui vagare: le convessità e le concavità anatomiche paiono i prolungamenti di un orizzonte desertico desolato e privo di vita sul quale il nostro occhio solo vedente ed il suo occhio veggente passeggiano senza meta apparente. Ma il passeggiare non è, romanticamente, portatore di serenità ma diventa un solcare fra le rughe di un territorio ormai segnato dal tempo e dallo spazio delle esperienze, un passeggiare che può solo ferire e far sanguinare poiché la ricerca interiore è sempre dolorosa e solo a volte terapeutica.

In tutti gli artisti emerge quindi la consuetudine al transitare, al traversare un territorio soggettivo variamente svelato ma che collettivamente rivela l’inquietudine dell’esistere che, anche quando è intima e personale, appare sempre diversa ed imprevedibile.

Il mese delle rose nell’anno 2007 Maria Chiara Zarabini

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