
51° SALONE NAUTICO INTERNAZIONALE DI GENOVA
LA RIVISTA BARCHE -INTERNATIONAL SEA PRESS-
PRESENTA
-NAVIGANDO-
DI
ROBERTO PAGNANI
PADIGLIONE B STAND 41
GENOVA 1-9 OTTOBRE 2011
ORARI: TUTTI I GIORNI DALLE 10 ALLE 18.30
5 PITTORI ALLA GERVASIA - 2011
Mauro Bendandi Pier Giovanni Bubani Giampaolo Carroli Roberto Pagnani Rupert Van Wyk da un’idea di Paolo Lini e Giorgio Tampieri sabato 27 e domenica 28 agosto 2011 dalle ore 17.30 all’imbrunire sabato 27 alle ore 17.30 presentazione della mostra a cura di Carlo Polgrossi http://gervasia-bagnacaval |
Pubblicato nel Giugno 2010, “Atlante laterale” è decisamente un invito al viaggio ma un invito particolare: quattro occhi, quattro mani, due sguardi diversi per gli stessi luoghi, due lingue diverse per raccontare l‘invisibile e il tangibile, un libro per farsi sorprendere.
“Atlante laterale” nasce –e qui riprendo la Nota editoriale- «dall’incontro artistico, poetico e letterario fra Roberto Pagnani (pittore) e Valerio Fabbri (poeta). La struttura del testo si manifesta tramite l’accostamento e le visioni “laterali” di dodici città prese in esame dai due autori. La prima città descritta è sempre di Pagnani, seguita ed affiancata da Fabbri. Quest’ordine viene rispettato fino alla conclusione del testo». In prefazione è uno scritto del poeta Stefano Simoncelli, che non a caso annota come le città visitate da Pagnani e Fabbri siano «(…) città e luoghi dell’anima. E’ la topologia che ognuno di noi si porta dentro e che è stata la carta di identità della migliore poesia di fine secolo. (…) Sono luoghi in cui ci riconosciamo, dove respiriamo “aria buona” (…) ».
Ed è vero: sia che le città affrontate noi le si abbia conosciute viaggiando, sia che la scoperta arrivi da altro (cinema, immagini; non di prima mano, comunque), nei testi respiriamo l’aria buona di Simoncelli, mista a una destabilizzazione, il brivido leggero dell’imprevisto che un piccolo particolare fatto emergere nel testo, evoca: un nulla che racchiude un mondo, un cerchio nel cerchio, nel cerchio, nel cerchio. Pagnani e Fabbri ci portano per mano a Berlino, Bologna (città natale di Pagnani), Ferrara, Firenze, Grenoble, Londra, Manova, Nida (in Polonia), Ravenna (città natale di Fabbri), Roma, Trieste, Venezia. Non c’è indice: bisogna scoprirle voltando pagina, visione dopo visione, parola dopo immagine, punto di vista dopo fatto storico, dopo visita, dopo invenzione. Impressione universale contrapposta al punto di vista personale. Ed è stupefacente: le visioni di questo “Atlante laterale” sono brevi, miniature più che affreschi, tratteggi talvolta.
Leggendoli però, uno dopo l’altro, ho quasi avuto la sensazione di una inversione di ruoli: che il poeta fosse Pagnani e Fabbri il pittore. Pagnani che in poche righe monta a neve storia e vicenda personale chiudendo con un colpo di frusta; Fabbri che acquerella larghezze dilatandole sempre più e negando il confine. E’ un bel dialogo e la curiosità voyeuristica del sapere come ognuno scrive ciò che vede una medesima cosa, cede presto al passo al capire “come ognuno vede” e basta. Quale dialogo è possibile tra i due testi: dove si fondono, come si intersecano, quanto restano paralleli. Dove, un viaggio fatto con occhi altrui, permette a noi di viaggiare e come. Simoncelli, in prefazione, cita dei versi di Caproni: «Non c’ero mai stato. M’accorgo che c’ero nato». Leggendo questo piccolo breviario di viaggio, posso io aggiungere: c’ero stato, e mai l’ho vista così» (e alla fine del libro, non ho potuto fare a meno di ricominciare daccapo).
Fabiano Alborghetti
LA
VERTIGINE ADDOMESTICATA
Scrivere delle opere di Roberto Pagnani
mi ha obbligato a un sano ripasso di storia dell’arte del secondo Novecento:
in
particolare di quel capitolo che va sotto il nome di informale materico.
Ho tolto la polvere da libri che ne avevano
obiettivamente più di altri, ne ho aperto uno che sull’argomento mi ha dato più
risposte di altri e sono andato alla ricerca di quel punto che mi è sempre
parso il punto della questione.
“La
percezione umana – scrive Renato Barilli in Informale
oggetto comportamento – ovunque si appunti vede germinare sciami di
corpuscoli come stelle in un firmamento o come grani di sabbia (…).
Il
risultato è la vertigine, il parossismo del rito ilomorfico, la ilinx: termine quest’ultimo rispolverato
dal lessico greco e proposto con rilievo icastico dal Caillois che ebbe a
servirsene nelle sue note indagini attorno al gioco: ilinx come simbolo categoriale di tutte le attività ludiche
affidate a rapidi movimenti rotatori e volte a conseguire un senso di
travolgente vertigine”.
Ecco la parola che cercavo: vertigine.
Nel cuore dell’informale – di tutto l’informale, anche di quello di matrice
nordica e viscerale che interessa soprattutto a Roberto – c’è una mescolanza di
ebbrezza e di turbamento che nasce “quando il soggetto umano avverte
l’attrazione dell’opacità della materia, della polarità dell’informe”.
E’ da
questa sensazione che scaturisce uno sguardo sul “mondo come continuum privo di soluzioni, come
flusso esuberante al punto da travolgere nella sua piena ogni argine, ogni
recinzione figurale, ogni sagoma e contorno”.
La pittura di Roberto sembra prendere le
mosse da questa atmosfera emotiva – che ha probabilmente assorbito attraverso
la collezione di famiglia, ma che forse gli appartiene anche senza tramiti biografici
o culturali – per fornirne una versione personale e letteralmente addomesticata. Personale è, ad esempio,
quella variante del materico che
definirei il ruvido e che mi sembra un tratto costante delle sue realizzazioni. Più
che delle escrescenze di colore dell’informale materico, o forse all’interno di esse, le opere di Roberto mi
sembrano alla ricerca delle superfici frastagliate e porose, cioè ruvide, su
cui meglio attecchisce la vita. La vertigine è una categoria esistenziale,
ancor prima che estetica, ed ha a che fare con la quotidianità, molto prima che
con la storia.
Perciò l’attrazione per “l’opacità della materia” può anche
assumere l’aspetto di un desiderio di immedesimazione in un oggetto trascurato,
ormai anche un po’ obsoleto, ma arciquotidiano come la caffettiera. Nei dipinti
proposti in questa mostra, Roberto si cala nella sagoma della cara, vecchia moka con un certo funambolismo, ma
anche con una buona dose di dimestichezza.
La “recinzione figurale” non ha
necessariamente bisogno di essere “travolta” per far spazio all’ingombro umano:
può essere sufficiente allentare un po’ la palizzata e aggiustarne i confini.
Ma ciò che ha colpito in modo più sottile la mia immaginazione, quando mi sono
confrontato con queste opere, è stata una breve nota in cui Roberto afferma di
“aver aggiunto in alcuni casi dei fili di lana color porpora per evocare un
luogo domestico”.
Ecco, domestico è
proprio il termine giusto: si può davvero familiarizzare con le cose, le
materie e le vertigini fino al punto da sentirsi, una volta calati dentro di
esse, a casa.
Senza per questo illudersi di aver fermato “quel continuum privo di soluzioni”, quel
“flusso esuberante” che non è tanto un fattore distintivo della pittura, quanto
del reale.
Roberto Borghi
Sabato 7 maggio alle 18, presso il Caffè Libenter di Mantova, si inaugura
una personale di Roberto Pagnani
In mostra fino al 28 maggio, una serie di recenti dipinti realizzati in tecnica mista (smalti, matite, pennarelli e tempere “innovative”, create con una soluzione di caffè e acqua) che raffigurano delle “moke antropomorfe”, delle caffettiere dalle sembianze umane che rappresentano una sintesi pittorica tra l’artista e la sua bevanda preferita: il caffè, appunto.
Roberto Pagnani è nato a Bologna nel 1970. Vive e lavora a Ravenna. E’ cresciuto in un contesto familiare dedito al mondo dell’arte da più generazioni, a contatto con opere e artisti tra i più rappresentativi della cultura italiana ed europea. La sua pittura si ricollega idealmente alla grande tradizione dell’informale materico, soprattutto di area nordeuropea, rivisitata alla luce di un rapporto più pacato con la quotidianità e la propria interiorità.
Tra le sue più recenti mostre ricordiamo le personali Volo presso la Pescheria della Rocca di Lugo di Romagna nel 2009, Parole Onde alla Galleria Il Vicolo di Cesena nel 2009, Rotte presso l’Autorità Portuale di Ravenna nel 2011; ricordiamo inoltre le collettive Cinéma Cinéma alla Galleria Tartaglia di Roma nel 2010, Natural-Mente-Artificio presso la Porta degli Angeli di Ferrara nel 2011 e la partecipazione alla edizione 2011 della fiera AAF di Milano con la Galleria CASEAPERTE.
Rotte che attraversano la realtà, sfiorano l’immaginario e trasportano dalle coste a porti vicini e lontani, costruite sui profili della darsena ravennate, ma riferite ad orbite spaziali indeterminate e più ampie accomunate ai luoghi della nostra città per vocazione industriale e meccanica.
Mattia Battistini e Roberto Pagnani (in mostra alla sede dell’Autorità Portuale di Ravenna fino all’11 marzo 2011) da tempo lavoravano individualmente sul tema della nave.
Poi si sono incontrati e hanno fatto confluire le loro poetiche in una mostra a due voci che tocca un tema fondamentale per la storia e la realtà di Ravenna: il porto, l’acqua, la macchina industriale che nei loro lavori abbandona il grigio fumo e apre al colore: quello artigianale, un po’ infantile e straniante di Battistini e quello che esplode disgregando le linee nel neo-informale di Pagnani.
Una memoria che proviene dagli anni più teneri, quella di Battistini, che dipinge su legni arenati sulle spiagge, o trovati in valli e pinete: materiali di recupero che hanno già in sé un tracciato degli arenili e per questo sono fortemente impregnati del sapore dei luoghi. Sono quasi barche giocattolo che riportano a quando, col padre, veniva ospitato a bordo dai marinai e, sospeso in una “terra di mezzo”, poteva osservare contemporaneamente il porto e la perdita di vista sull’orizzonte. Di qui le volute riprese su scorci stranianti, prospettive distorte e irreali per un caos voluto che fa dell’imperfezione un elemento poetico.
Pagnani si muove per altre vie e costruisce metafore visive della fatica, del lavoro, della nave come “microsocietà galleggiante” che assume fisionomie scontornate ed aperte: una rappresentazione formale che deriva dal contatto diretto, per conoscenza familiare, con grandi protagonisti del dopoguerra come Mattia Moreni, con ascendenze all’Informale d’oltrefrontiera fino a Mathieu e al Gruppo Cobra. Rappresentazioni in cui «dripping e spatolature creano immagini dove iconico e aniconico convivono per recuperare la vocazione al simbolo e alla pluralità del linguaggio – spiega l’artista –. Il mio obiettivo è ridare contenuto agli oggetti rappresentandoli in un momento storico in cui tutto corre veloce. Dipingo schegge impazzite che riassumono questo flusso vorticoso di correnti e per me la nave ha anche una connotazione sociale: il trasporto nei container, la fatica del lavoro. Tutti elementi non facili da trasporre in pittura, ma che da tanti anni appartengono al dna di Ravenna». E lo spessore della parola è ben presente fin dal progetto che ha originato sia la mostra che il catalogo: manca volutamente la figura di un “curatore” per dare spazio a poeti, scrittori e filosofi contemporanei: i testi di Domenico Settevendemie, Francesco Bianchini e il “Bollettino n°0” a cura di Lotta Poetica, insieme alla poesia di Valerio Fabbri, tolgono infatti terreno alla didascalia per restituirlo alla suggestione. Originale anche la scelta dell’impaginatura: al posto della semplice riproduzione delle opere, si è scelto di “montare” le immagini in maniera quasi indistinta su fondali appositamente dipinti dagli artisti stessi: un’opera d’arte nell’opera d’arte che si fa forte di una netta autonomia artistica rispetto all’“allestimento-installazione” improvvisato a quattro mani, come una scrittura automatica, che contraddistingue lo spazio espositivo.
05 marzo 2011
Natural-mente-artificiale, l'ibridazione dello sguardo
di Fulvio Chimento
Natura e artificio convivono in modo incontrovertibile nello spazio fisico e talvolta coesistono implicitamente già nello sguardo dell’osservatore, dando vita a immagini segnate da un’ibridazione inconsapevole. Non a caso a partire dall’Ottocento fino ai giorni nostri grande fortuna ha avuto un genere pittorico come il "paesaggio industriale", in cui convivono le diverse componenti del mondo reale e di quello artificiale. Le immagini si sedimentano nell'inconscio, ed è per mezzo di questo accumulo che la nostra mente genera forme uniche e al tempo stesso complesse che contribuiscono alla formulazione della percezione del mondo esteriore.
Quale zona migliore, dunque, della Pianura Padana per analizzare il rapporto tra uomo e natura nel XXI secolo? Le fabbriche, le ciminiere, i muri che separano le industrie, le arterie stradali solcate dai tir (simbolo contemporaneo del Nord Italia), altro non sono che il frutto amaro di questo confronto, segno tangibile di una discrasia emotiva, di una manomissione compiuta a danno di se stessi prima ancora che dell'ambiente esterno.
Dal punto di vista prettamente artistico, invece, la nascita della società dei consumi ha moltiplicato le possibilità di rappresentazione, e questo, da Duchamp in poi, passando per la Pop Art, è un concetto unanimamente condiviso; la critica d'arte, tuttavia, si è concentrata sulle cause della nascita di questi fenomeni artistici, più che analizzarne le immediate conseguenze. Aver considerato il prodotto artistico alla stregua di quello industriale ha dato il via a un percorso che in breve tempo ha portato a concepire l'opera d'arte in modo seriale, mentre per emergere nella sua interezza il lavoro dell'artista necessita di riflessione accurata e di tempi cristallizzati, non condizionabili dal mercato. Warhol ha compreso il genio dadaista di Duchamp, artista a tutto tondo e grande sperimentatore di linguaggi (fu il primo nella cerchia di pittori cubisti a comprendere le potenzialità dell’avanguardia futurista) e, da uomo intelligente quale era, ha esasperato la lezione dell'artista francese, intuendo e precorrendo le regole del mercato. Il risultato è stato clamoroso, tanto da influenzare nel profondo gran parte della cultura figurativa occidentale. La Pop Art si è rivelata però una scatola vuota ben infiocchettata, finendo per essere assorbita da quella stessa cultura di massa che si proponeva di contestare. La critica d'arte europea e statunitense si è prestata a questo esercizio, spinta dal positivismo insito nella sua matrice, contribuendo in maniera determinante non solo a creare una linea di demarcazione netta con la tradizione, vero intento del padre del dadaismo, ma anche con il passato prossimo e con un presente ancora in essere. E’ seguito un generale spaesamento dell'indagine artistica, che ha coinvolto sia chi realizza prodotti artistici sia chi li indaga.
Ecco il vero tema della mostra “Natural-mente-artificiale”, ovvero "l'altra faccia di Duchamp", la possibilità di tornare ad analizzare la natura per mezzo degli strumenti consolidati della tradizione artistica e contemporaneamente attraverso i nuovi linguaggi che caratterizzano la post-modernità.
Ogni artista coinvolto ha risposto in maniera differente agli stimoli offerti dall'esposizione, confrontandosi con l'universo naturale attraverso i propri parametri creativi. Le installazioni in plexiglass e gelatina di Paola Babini riflettono sul tema della dimensione intima e quotidiana della femminilità, le scarpe da donna sono lo specchio di un decadentismo declinato in chiave effimera e quindi alterato nella sua stessa sostanza. Dall’accurata disposizione degli oggetti e degli orpelli nello spazio emerge un'ordinaria inquietudine, e quello che dovrebbe essere uno dei simboli privilegiati della seduzione femminile si trasforma in un oggetto che mette in scena solitudine e turbamento. Mauro Bendandi utilizza invece lamiere e lastre per supporti fotografici decontestualizzate e sottratte alla propria funzione originaria, creando così un artificio. La tecnica mista gli permette di espandere la sua indagine e di attrarre in tal modo il mondo esterno nell’opera. Le spine elettriche, gli interruttori e i lampadari in stile veneziano rendono tangibile il flusso energetico insito nella natura, trasferito nel mondo artefatto e costruito dell’uomo. Paola Campidelli si esprime invece attraverso la tecnica più tradizionale del colore acrilico per cercare di catturare la prima impressione della visione, per partecipare al disvelamento di ciò che di misterioso vi è nel creato. Nella serie “Fiori” la condizione emozionale dell’oggetto dà vita a una fusione completa tra l’uomo e la natura. La pittrice si serve di una visione dettagliata che contrasta con un tratto espressionista di matrice mediterranea, che trasmette “joie de vivre” in un flusso di colori. Roberto Pagnani pone la propria attenzione sulla natura racchiusa in spazi minimi d’esistenza, progressivamente confinata dall’avanzamento del mondo industriale, fino a diventare un frammento di memoria osservato di sfuggita da un finestrino. I canneti che crescono tra le paludi sono rappresentati sulla tela senza lasciare spazio all’interpretazione romantica: immobili e scomposti in accostamenti cromatici violenti, perdono la propria poeticità esaltando l’irrealtà di un paesaggio che tende sempre più a scomparire.
Tratto comune ai quattro artisti è una modalità di interpretazione diffusa e paradossalmente sconcertante: nel tentativo di divenire il demiurgo di se stesso, l’uomo ha piegato l’ambiente circostante alle proprie esigenze, fino a imporre al termine “trasformazione” il senso di “deformazione”.
Porta degli Angeli
5-20 febbraio 2011
inaugurazione sabato 5 febbraio ore 17.30
gio-ven 16-19
sab-dom 10-13 16-19
sabato 19 apertura speciale continuata 10-16
Porta degli Angeli
Rampari di Belfiore, 1 - Ferrara
http://www.portadegliangel
info@ortadegliangeli.org
ST.ART.47