giovedì 23 dicembre 2010

Dialoghi Dinamici di Aldo Savini. Ravenna In Magazine, dicembre 2010

Dialoghi dinamici

Avrebbe dovuto fare l’agronomo, ma la sua inclinazione naturale lo portava altrove. Fin dai primi giorni di scuola all’Istituto Tecnico Agrario di Ravenna ha la certezza che non avrebbe mai intrapreso quell’ attività. Eppure porta a termine gli studi, poi all’Università si iscrive alla Facoltà di Storia Medievale. Gli affetti e le memorie erano più forti: fin da bambino era vissuto in ambienti pieni di opere d’arte che la famiglia in parte aveva ereditato, come un bellissimo ritratto del Piccio, e che il nonno, di cui porta il nome, aveva collezionato nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, intrattenendo rapporti con artisti e personaggi della cultura nazionale e internazionale. Michelangelo Antonioni era di casa, per una scena del film Il deserto rosso aveva voluto un quadro di Gianni Dova, tuttora appeso ad una parete della grande sala della villa progettata dall’architetto ravennate Luciano Galassi. Questo contesto di vita quotidiana ha fornito lo stimolo per le prime esperienze creative e per la definizione di una poetica che trova nella memoria il suo principio ispiratore. Poi per la sua formazione è stato determinante l’incontro con Giuseppe Maestri che lo ha seguito nel laboratorio annesso alla Galleria La Bottega di Via Baccarini nella tecnica dell’incisione che richiede rigore formale e precisione senza ripensamenti. Su questi presupposti, il ciclo di opere esposte nella mostra “Palafitte” al Circolo degli Artisti di Faenza nel 2005 si presenta come una rivisitazione in chiave affettiva delle opere della collezione di famiglia. Il colore gelatinoso, reso trasparente e palpabile dal ricorso alla carta velina nelle tonalità del grigio e del beige, è in sintonia con le due tele monocrome a grandi spatolate proprio di Mattia Moreni, mentre la riduzione minimalista della figurazione, ottenuta con i legni in gran parte restituiti dal mare, incrociati o sovrapposti secondo un ordine meditato, quasi geometrico, rimanda ai segni pittorici di Georges Marthieu, in quel caso, però, frutto di un gesto irruente, svincolato da qualsiasi implicazione razionale e calcolatrice. Ma, come faceva notare Beatrice Buscaroli quelle palafitte potrebbero essere anche piattaforme, quelle costruzioni metalliche che si notano al limite dell’orizzonte camminando sull’arenile delle nostre coste. Sembra quindi che Pagnani intenda la dimensione storico-temporale come la percezione condensata e immediata del percorso della lunga vicenda dell’uomo, dalle origini alla contemporaneità, dove la difesa delle insidie e la ricerca della sicurezza non escludono l’anticipazione del nuovo. Pertanto, il rapporto con le opere viste con occhi sempre diversi è occasione e terreno di confronto fra sensibilità affini eppure lontane nel tempo e costituisce un patrimonio di emozioni e di immagini che si fissano nella memoria, attraverso un lento processo di interiorizzazione che permane nel presente. Il tema del mare e della nave è indagato nelle opere più recenti come luogo di esperienze passate ma ancora attuali, dove l’elemento realistico si fa frammento o citazione evocativa. Fin da bambino le navi hanno colpito la sua fantasia. Il nonno materno lo portava a passeggiare lungo la darsena del porto canale di Ravenna e spesso chiedeva ai marinai il permesso di visitare le navi ormeggiate. Come case di ferro, sono “luoghi” mobili in continuo mutamento, abitati da una molteplicità di individui con funzioni diverse, che creano un microcosmo sociale e di esperienze quotidiane che non è dato vedere dall’esterno. Pagnani si sofferma su alcuni dettagli delle navi che il colore trasforma in motivi di pura espressione, legando la loro presenza essenzialmente a valori di tipo formale, evitando, pur sempre, l'arbitrarietà sia dell'astrazione che della rappresentazione realistica. Spesso è la prua che si staglia su fondali irreali per richiamare la terraferma circostante, quasi a voler cogliere il momento della partenza e il movimento. In altri termini, in questa immagine ritorna l’idea del distacco che, pur nell’incertezza, trattiene quella del ritorno. Il viaggio avviene nel mare sconfinato della coscienza dai sommovimenti improvvisi, dove il passato, trasfigurato, si proietta nel presente, aprendo una via che conduce dove più si desidera andare. In questa prospettiva ha incontrato la poesia e la musica, o meglio l’urgenza del dialogo e dell’intreccio intimo tra diversi linguaggi espressivi. Da qui i rapporti di amicizia e collaborazione con poeti, letterati e musicisti, tra cui Valerio Fabbri, Domenico Settevendemie e Matteo Ramon Arevalos, coi quali ha creato lo spettacolo “Variazioni sull’angolo diedro” che associa musica, parola e immagine, intesa come scenografia dinamica.

Aldo Savini