martedì 10 maggio 2011

LA VERTIGINE ADDOMESTICATA



LA
VERTIGINE ADDOMESTICATA



Scrivere delle opere di Roberto Pagnani
mi ha obbligato a un sano ripasso di storia dell’arte del secondo Novecento:

in
particolare di quel capitolo che va sotto il nome di informale materico.

Ho tolto la polvere da libri che ne avevano
obiettivamente più di altri, ne ho aperto uno che sull’argomento mi ha dato più
risposte di altri e sono andato alla ricerca di quel punto che mi è sempre
parso il punto della questione.

“La
percezione umana – scrive Renato Barilli in Informale
oggetto comportamento
– ovunque si appunti vede germinare sciami di
corpuscoli come stelle in un firmamento o come grani di sabbia (…).

Il
risultato è la vertigine, il parossismo del rito ilomorfico, la ilinx: termine quest’ultimo rispolverato
dal lessico greco e proposto con rilievo icastico dal Caillois che ebbe a
servirsene nelle sue note indagini attorno al gioco: ilinx come simbolo categoriale di tutte le attività ludiche
affidate a rapidi movimenti rotatori e volte a conseguire un senso di
travolgente vertigine”.


Ecco la parola che cercavo: vertigine.
Nel cuore dell’informale – di tutto l’informale, anche di quello di matrice
nordica e viscerale che interessa soprattutto a Roberto – c’è una mescolanza di
ebbrezza e di turbamento che nasce “quando il soggetto umano avverte
l’attrazione dell’opacità della materia, della polarità dell’informe”.

E’ da
questa sensazione che scaturisce uno sguardo sul “mondo come continuum privo di soluzioni, come
flusso esuberante al punto da travolgere nella sua piena ogni argine, ogni
recinzione figurale, ogni sagoma e contorno”.


La pittura di Roberto sembra prendere le
mosse da questa atmosfera emotiva – che ha probabilmente assorbito attraverso
la collezione di famiglia, ma che forse gli appartiene anche senza tramiti biografici
o culturali – per fornirne una versione personale e letteralmente addomesticata. Personale è, ad esempio,
quella variante del materico che
definirei il ruvido e che mi sembra un tratto costante delle sue realizzazioni. Più
che delle escrescenze di colore dell’informale materico, o forse all’interno di esse, le opere di Roberto mi
sembrano alla ricerca delle superfici frastagliate e porose, cioè ruvide, su
cui meglio attecchisce la vita. La vertigine è una categoria esistenziale,
ancor prima che estetica, ed ha a che fare con la quotidianità, molto prima che
con la storia.

Perciò l’attrazione per “l’opacità della materia” può anche
assumere l’aspetto di un desiderio di immedesimazione in un oggetto trascurato,
ormai anche un po’ obsoleto, ma arciquotidiano come la caffettiera. Nei dipinti
proposti in questa mostra, Roberto si cala nella sagoma della cara, vecchia moka con un certo funambolismo, ma
anche con una buona dose di dimestichezza.

La “recinzione figurale” non ha
necessariamente bisogno di essere “travolta” per far spazio all’ingombro umano:
può essere sufficiente allentare un po’ la palizzata e aggiustarne i confini.
Ma ciò che ha colpito in modo più sottile la mia immaginazione, quando mi sono
confrontato con queste opere, è stata una breve nota in cui Roberto afferma di
“aver aggiunto in alcuni casi dei fili di lana color porpora per evocare un
luogo domestico”.

Ecco, domestico è
proprio il termine giusto: si può davvero familiarizzare con le cose, le
materie e le vertigini fino al punto da sentirsi, una volta calati dentro di
esse, a casa.

Senza per questo illudersi di aver fermato “quel continuum privo di soluzioni”, quel
“flusso esuberante” che non è tanto un fattore distintivo della pittura, quanto
del reale.



Roberto Borghi